Vincolare i fondi al rispetto dei diritti umani e ambientali. Altrimenti la pezza sarà più grande del buco
L’Italia sta per varare una misura da 55 miliardi, la più imponente della storia del paese. Il Governo sta chiedendo ai contribuenti uno sforzo presente e futuro enorme. La Campagna Abiti Puliti ha inviato oggi una lettera al Governo in cui chiede che i fondi pubblici utilizzati per la ricostruzione siano concessi solo ad aziende che si impegnano a rispettare i diritti umani sia in Italia che nel mondo e che non abbiano sede in paradisi fiscali.
“La pandemia di Covid19 non è più una emergenza solo sanitaria, ma è presto diventata anche una questione di giustizia economica e sociale.” commenta Deborah Lucchetti, portavoce della campagna. “Sono milioni le persone che hanno già perso il lavoro a causa delle politiche predatorie delle multinazionali nelle filiere globali. Se quelle aziende vogliono aiuti di Stato, devono condividere la ricchezza ricevuta con i lavoratori, non solo quelli operanti in Italia. Si può ripartire solo se nessuno è lasciato indietro.”
Stiamo assistendo a comportamenti predatori e inaccettabili: aziende che non pagano i fornitori, cancellano ordini già effettuati, licenziano o minacciano il personale, si rivolgono a fornitori esteri chiedendo prezzi stracciati costringendoli a pagare ai loro dipendenti stipendi da fame. Alcune hanno chiesto fondi di sostegno al governo italiano, anche se non pagano le tasse in Italia bensì in paradisi fiscali. Ciò sta accadendo nel settore della moda, ma non solo. Se le imprese italiane vogliono usufruire di fondi pubblici devono impegnarsi a rispettare i diritti umani e dei lavoratori in tutto il mondo, e pagare le tasse nel nostro Paese.
I cittadini italiani hanno il diritto di sapere come queste risorse saranno spese e quali aziende ne beneficeranno: per questo la Campagna Abiti Puliti chiede di fare buon uso del Registro Nazionale degli Aiuti di Stato creando una sezione specifica dedicata all’erogazione e gestione dei fondi Covid. Rendere pubbliche queste informazioni in maniera chiara e accessibile è un passo fondamentale per nutrire la democrazia e favorire una reale transizione dell’economia verso la sostenibilità.
“Per facilitare la messa in pratica di tale impegno, abbiamo preparato un modulo molto semplice e precompilato: il Governo non deve fare altro che allegarlo al Decreto Maggio” aggiunge Lucchetti.
Allo stesso tempo la Campagna Abiti Puliti, in collegamento con altre coalizioni gemelle in diversi paesi europei, ha lanciato una petizione rivolta alle imprese italiane del settore moda affinché adottino condotte responsabili e non spostinoil peso della crisi sanitaria sulle operaie all’altro capo delle loro catene di fornitura.
La prossima occasione per approfondire questi temi è Giovedì 14 maggio alle ore 17. Per il ciclo Tra le trame della crisi, in diretta Facebook sulla pagina della Campagna Abiti Puliti, si terrà l’evento “Colmiamo i buchi legali. Le leggi che mancano per cucire moda sostenibile”. Insieme a Angelica Bonfanti, Professoressa associata in diritto internazionale UniMI e Gianni Rosas, Direttore OIL Ufficio per l’Italia e San Marino parleremo delle leggi che mancano per obbligare le imprese a rispettare i diritti e della necessità di avere sistemi di protezione sociale nei paesi di produzione.
Il mondo è un posto ineguale a causa di comportamenti umani e aziendali che sono evidentemente giunti al capolinea. Il Coronavirus ci ha rimesso all’anno zero. Abbiamo l’occasione di cambiare la direzione del mondo e sappiamo già come farlo.
Il momento di agire è ora.
Dalle macerie del Rana Plaza al Covid19: a pagare il conto sono sempre i lavoratori
Sette anni fa, almeno 1.134 persone persero la vita nel più grande disastro industriale della storia: il crollo del Rana Plaza. Oggi, mentre commemoriamo con dolore la morte di quei lavoratori e di quelle lavoratrici, ancora una volta ci troviamo a denunciare la situazione critica in cui milioni di persone sono costrette a vivere a causa di un potere quasi egemonico dei grandi marchi e dei distributori nella filiera tessile.
La pandemia di Covid-19 sta travolgendo l’industria della moda, minando le lotte dei lavoratori per la protezione sociale, i salari dignitosi, la libertà di associazione e le fabbriche sicure. Non appena la crisi sanitaria ha colpito le imprese di abbigliamento più grandi al mondo, queste hanno risposto addossando rischi e costi sulla parte più bassa della filiera: non pagando per ordini già eseguiti o ritirando quelli in produzione, hanno lasciato i proprietari delle fabbriche senza i mezzi finanziari per pagare gli stipendi ai propri dipendenti. Milioni di lavoratori sono ora senza una paga e senza la sicurezza di un lavoro, in aggiunta alle ovvie e non trascurabili ansie per i rischi sanitari.
Una dichiarazione congiunta dell’Organizzazione Internazionale delle Imprese (IOE) e dei Sindacati Internazionali (GUF) appena pubblicata richiama un approccio collaborativo per mitigare la perdita massiccia di vite, posti di lavoro e reddito nella filiera della moda causata dalla pandemia. I marchi che sottoscrivono tale dichiarazione si impegnano a rispettare una serie di misure minime, come pagare gli ordini in produzione ma anche impegnarsi con i governi e le istituzioni finanziarie internazionali per istituire fondi per far fronte alle esigenze immediate dei lavoratori e rafforzare piani di protezione sociale nelle catene di fornitura.
È giunto il momento in cui i brand e i distributori, inclusi quelli di e-commerce, adottino condotte responsabili, a partire dall’impegno immediato di pagare fornitori e lavoratori, avendo per anni incamerato profitto grazie ai bassi salari e all’assenza pressoché totale di previdenza sociale. Ad oggi noti marchi internazionali come Arcadia, ASOS, Bestseller, C&A, EWM/Peacocks, Gap, JCPenney, Kohl’s, Mothercare, Next, Primark, Tesco, Under Armour, Urban Outfitters e Walmart/Asda non hanno ancora preso alcun impegno per pagare gli ordini completati o in produzione. In Italia la Campagna Abiti Puliti ha chiesto di rendere conto sulle pratiche in corso a importanti firme della moda, tra cui Armani, Benetton, Calzedonia, Ferragamo, Geox, Gucci, Miroglio, Moncler, OVS, Prada, Salewa, Versace, Zegna. Al momento solo Prada e Salewa hanno fornito rassicurazioni sul fatto che rispetteranno gli impegni assunti con i fornitori al sorgere della pandemia. Il network della Clean Clothes Campaign monitorerà gli impegni dichiarati dalle aziende e ne renderà conto pubblicamente.
In particolare chiediamo ai marchi di:
- Rispettare gli obblighi nei confronti dei fornitori pagando gli ordini già eseguiti o in produzione;
- Assicurare e permettere il pagamento di salari e stipendi o liquidazioni a tutti i lavoratori del settore dell’abbigliamento, del tessile, delle calzature e della logistica che sono stati assunti al sorgere di questa crisi;
- Garantire che coloro che lavorano durante la pandemia, siano effettivamente in grado di attenersi ai protocolli dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e che vengano loro offerte altre tutele giuslavoristiche, quali strutture o assegni per l’infanzia, assicurazioni sanitarie, copertura in caso di malattia e retribuzione legata al rischio lavorativo;
- Permettere ai lavoratori di rifiutarsi di lavorare in assenza di protezioni e di rimanere a casa senza subire discriminazioni per coloro che sono malati, o i cui familiari siano malati.
Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti sottolinea: “La crisi è arrivata come un pugno in faccia per farci rendere conto, speriamo definitivamente, che un modello economico basato sulla compressione massima dei costi, sullo sfruttamento illimitato delle risorse e sulla assenza di reti di protezione sociale solide per chi lavora è semplicemente insostenibile. Le catene di fornitura globali, se torneranno ad operare, dovranno essere radicalmente riformate, mettendo al centro il tema della redistribuzione del valore e l’istituzione di sistemi di assistenza e previdenza sociale per tutti i lavoratori della filiera”
Nei giorni scorsi la Campagna Abiti Puliti ha inviato una lettera al Presidente del Consiglio Conte e ai Ministri Gualtieri, Di Maio e Catalfo che hanno la responsabilità politica di attuare il Decreto Legge Cura Italia, sottolineando l’importanza del rispetto dei diritti umani e dei lavoratori nella fase di ripresa e della salute e sicurezza sul lavoro, come richiamato nella recente risoluzione adottata dal Parlamento Europeo. Riteniamo che solo le aziende che dimostrino di saper proteggere i lavoratori propri e appartenenti all’intera catena di fornitura devono poter contare su misure di sostegno.
Manca poco al 4 maggio e l’industria della moda ha avuto il permesso di ricominciare le produzioni. Se da un lato comprendiamo le necessità economiche, dall’altro dobbiamo ricordare che nessun lavoratore è sacrificabile. In questo momento l’attenzione alla salute e sicurezza deve essere massimo.
Nell’immediato presente riteniamo che:
- Le società beneficiare delle misure di cui al DL 23/2020 (Decreto Liquidità) dovrebbero garantire in modo trasparente il rispetto dei diritti umani lungo la loro catena di fornitura anche internazionale; SACE e CDP dovrebbero assicurarsi la soddisfazione di tale requisito prima di erogare garanzie, presenti e future;
- Le società beneficiarie delle misure di cui al DL 23/2020 (Decreto Liquidità) dovrebbero garantire in modo trasparente il pagamento degli ordini già eseguiti o in corso e in generale il rispetto degli obblighi contrattuali precedentemente assunti con i fornitori; il PCN dell’OCSE potrebbe agire almeno da persuasore morale sul punto;
- Ai rigorosi controlli in tema di salute e sicurezza sul lavoro sulle società che hanno ripreso la produzione il 14 aprile e quelle che la riprenderanno a breve da parte di GdF e INL dovrebbero essere sottoposte tutte quelle di produzione tessile e calzaturiera;
- Dei fondi e garanzie erogati per la gestione dell’emergenza Covid-19 dovrebbe essere resa una rendicontazione adeguata, trasparente e disponibile per gli stakeholders;
La task force dei 17 Esperti inoltre dovrebbe intraprendere un dialogo con la società civile al fine di arricchire il proprio piano di uscita dalla crisi.
I governi dei paesi di produzione devono impegnarsi fin da subito a implementare e migliorare i programmi di previdenza sociale, così da allinearli agli standard dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) relativi alla disoccupazione, agli infortuni sul lavoro e all’assicurazione sanitaria. Siffatte operazioni dovrebbe essere effettuate di concerto con le aziende manifatturiere e con la contribuzione economica dei marchi, mediante l’istituzione di meccanismi di condivisione dei costi trasparenti e tracciabili.
Infine chiediamo che i governi dei Paesi ove i marchi e i distributori hanno la propria sede centrale, riformino la normativa su quelle pratiche di concorrenza sleale che portano a violazioni dei diritti nella filiera internazionale, obbligando per legge le società al rispetto dei diritti umani nelle proprie operazioni lungo tutta la filiera che movimentano, anche tramite l’adozione di una legge che renda obbligatoria la dovuta diligenza sui diritti umani.Inoltre tali società dovrebbero essere portate in tribunale, qualora non conducano una accurata dovuta diligenza sui diritti umani lungo la filiera o non si assumano la responsabilità di rimediare agli eventuali abusi causati dall’attività economica.
“Le soluzioni per mitigare gli effetti di questa crisi possono essere un’opportunità per realizzare un vero cambio di passo. Governi, imprese multinazionali e istituzioni finanziarie internazionali devono dare una risposta coordinata e coerente a questa crisi globale. Hanno l’obbligo morale e politico di tutelare soprattutto gli individui più vulnerabili della nostra società e non lasciare indietro nessuno.” conclude Lucchetti.
Note per l’editore:
– La dichiarazione congiunta associazione industriali e sindacati globali http://www.industriall-union.org/global-action-to-support-the-garment-industry
– Lista di marchi che hanno assunto l’impegno a pagare gli ordini e quelli che ancora rifiutano gestita dal Worker Rights Consortium https://www.workersrights.org/issues/covid-19/tracker/
– La sezione internazionale della Campagna Abiti Puliti mantiene un blog per raccogliere le informazioni su come la pandemia colpisce i lavoratori https://cleanclothes.org/news/2020/live-blog-on-how-the-coronavirus-influences-workers-in-supply-chains
– Le richieste immediate del network globale della Campagna Abiti Puliti verso imprese, governi su come rispondere alla pandemia http://www.abitipuliti.org/regole-vincolanti-per-le-imprese/i-grandi-marchi-della-moda-e-i-distributori-devono-intervenire-adesso-per-proteggere-i-lavoratori/
– La risoluzione del Parlamento Europeo del 17 aprile 2020 “EU coordinated action to combat the COVID-19 pandemic and its consequences” https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-9-2020-0054_EN.pdf
I grandi marchi della moda e i distributori devono intervenire adesso per proteggere i lavoratori
La pandemia di COVID-19 sta palesando la relazione di potere estremamente ineguale che sorregge la filiera tessile globale, di cui sono i lavoratori a pagare il prezzo. Oggi le numerose organizzazioni del network della Campagna Abiti Puliti richiamano a gran voce l’attenzione sulle azioni che grandi marchi e distributori – ma anche governi ed altri stakeholders- possono implementare per mitigare l’impatto della crisi su coloro che sono già estremamente sfruttati nella catena di fornitura e iniziare a costruire un futuro in cui lavoratori e lavoratrici abbiano accesso a un salario dignitoso e ad una rete di protezione sociale.
Le ultime settimane hanno reso evidenti le implicazioni derivanti dalla posizione di potere quasi egemonico dei grandi marchi e dei distributori nella filiera tessile. Non appena la pandemia ha colpito le imprese di abbigliamento più grandi al mondo, queste hanno risposto nel loro solito modo, addossando rischi e costi nella parte più bassa della filiera. Ciò ha fatto sì che molte fabbriche non hanno potuto contare su mezzi finanziari per pagare gli stipendi ai propri dipendenti, anche per ordini già eseguiti. Milioni di lavoratori sono ora senza una paga e senza la sicurezza di un lavoro, in aggiunta alle ovvie e non trascurabili ansie per i rischi sanitari.
“I marchi devono comportarsi correttamente con le fabbriche con cui hanno concluso contratti” ha affermato Juan Eguigure del sindacato SITRADAHSA in Honduras. “Senza i pagamenti, i nostri datori di lavoro non possono pagarci il denaro che già ci spetta. Questo è il nostro sostentamento, senza di esso non potremo dare da mangiare alle nostre famiglie.”
“La pandemia di Covid-19 ha dimostrato che la responsabilità sociale d’impresa esiste solo come mezzo di cui le aziende dispongono per “ripulirsi” dai loro comportamenti immorali. Ora più che mai, i lavoratori necessitano di solidarietà economica da parte dei propri datori” ha affermato Evangelina Argueta del sindacato CGT in Honduras, “per molti anni i lavoratori hanno generato ricchezza in favore dei brand.”
Ora è giunto il momento in cui i brand e i distributori, inclusi quelli di e-commerce, devono smettere di approfittarsi di fornitori e lavoratori, e iniziare a ripagarli per gli anni in cui hanno incamerato profitto grazie ai bassi salari, all’assenza pressoché totale di previdenza sociale, e allo spostamento dei rischi nella parte più bassa della filiera.
I brand e i distributori, inclusi quelli di e-commerce, devono agire in modo responsabile in questa pandemia. A tal fine devono:
- Rispettare gli obblighi nei confronti dei fornitori, pagando gli ordini già eseguiti o in produzione;
- Assicurare e permettere il pagamento di salari e stipendi o liquidazioni a tutti i lavoratori del settore dell’abbigliamento, del tessile, delle calzature e della logistica che sono stati assunti al sorgere di questa crisi;
- Garantire che coloro che lavorano durante la pandemia siano effettivamente in grado di attenersi ai protocolli dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, e che vengano loro offerte altre tutele giuslavoristiche quali strutture o assegni per l’infanzia, assicurazioni sanitarie, copertura in caso di malattia, e retribuzione legata al rischio lavorativo;
- Permettere ai lavoratori di rifiutarsi di lavorare in assenza di protezioni, e di rimanere in casa senza subire discriminazioni per coloro che sono malati, o i cui familiari siano malati.
“Il minimo che marchi e distributori possono fare durante la crisi è pagare per gli ordini già eseguiti. Quando la pratica della maggior parte dei brand di annullare tali ordini è stata criticata, diverse aziende sono tornate sui loro passi, per il sollievo dei fornitori” ha affermato Liana Foxvog dell’International Labor Rights Forum. “Tuttavia molti pesci grossi quali C&A, Gap, Nike e Uniqlo, perseverano nel non pagare per ordini già eseguiti o per i quali la produzione è già avviata; altri hanno implementato alternative francamente non adeguate, come ad esempio la proposta di Primark di istituire un fondo che copra la componente del costo del lavoro degli ordini che ha cancellato.”
Per alleggerire i problemi dei lavoratori i cui mezzi di sostentamento sono minacciati da questa crisi, è necessario creare fondi di emergenza e pacchetti di sostegno economico specifici per il settore tessile, ai quali dovrebbero contribuire le istituzioni finanziarie internazionali, governi donatori, marchi e distributori. Tali fondi dovrebbero partire il prima possibile affinché tali pagamenti siano effettuati rapidamente, attraverso il meccanismo più efficace disponibile in ciascun Paese. Laddove possibile, ciò andrebbe fatto sostenendo la capacità dei datori di mantenere stabili contratti e salari.
Se la crisi è causata dall’arresto della domanda, degli acquisti e delle linee di produzione dell’abbigliamento, è anche esacerbata dalla mancanza di protezione sociale nella maggior parte dei Paesi in cui si producono abiti.
I governi dei paesi di produzione devono impegnarsi fin da subito a implementare e migliorare i programmi di previdenza sociale, così da allinearli agli standard dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) relativi alla disoccupazione, agli infortuni sul lavoro e all’assicurazione sanitaria. Siffatte operazioni dovrebbe essere effettuate di concerto con le aziende manifatturiere e con la contribuzione economica dei marchi, mediante l’istituzione di meccanismi di comparto dei costi trasparenti e tracciabili.
Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti sottolinea: “La crisi è arrivata come un pugno in faccia per farci rendere conto, speriamo definitivamente, che un modello economico basato sulla compressione massima dei costi, sullo sfruttamento illimitato delle risorse e sulla assenza di reti di protezione sociale solide per chi lavora è semplicemente insostenibile. Le catene di fornitura globali, se torneranno ad operare, dovranno essere radicalmente riformate, mettendo al centro il tema della redistribuzione del valore e l’istituzione di sistemi di assistenza e previdenza sociale per tutti i lavoratori della filiera”
I governi dei paesi ove i marchi e i distributori hanno la propria sede centrale, dovrebbero riformare la normativa su quelle pratiche di concorrenza sleale che portano a violazioni di diritti umani nella filiera internazionale, obbligando per legge le società al rispetto dei diritti umani nelle proprie operazioni e lungo tutta la filiera che movimentano. Inoltre tali società dovrebbero essere portate in tribunale, qualora non conducano una dovuta diligenza sul rispetto dei diritti umani lungo la filiera.
Che l’abusiva sperequazione nei rapporti di filiera rimanga un fatto del passato: il momento è ora. Quando questa crisi sarà superata, sarà fondamentale sventare il rischio di tornare ad una normalità che era semplicemente patologica. Questa crisi dovrà tracciare la strada per una economia finalmente più equa, resiliente e sostenibile.
Covid-19: cresce l’insicurezza per i lavoratori e le lavoratrici tessili
La pandemia globale di COVID-19 continua a crescere e diffondersi. In questo momento, oltre un terzo della popolazione mondiale è interessato da una qualche forma di lock down o restrizione dei movimenti per controllare l’espansione del virus. I lavoratori tessili nelle filiere globali, già costretti in situazioni di vita precarie, affrontano una crescente insicurezza man mano che le fabbriche chiudono per il calo degli ordini e le misure governative restrittive per proteggere la salute pubblica.
In particolare i lavoratori sono stati colpiti da ciascuna delle tre ondate di questa pandemia. La prima si è verificata quando la Cina ha identificato il COVID-19 nella sua popolazione: smettendo di esportare le materie prime necessarie per la produzione di abbigliamento, ha costretto molte fabbriche nel sud e nel sud-est asiatico a chiudere temporaneamente e rimandare a casa i lavoratori, spesso senza preavviso e salari. La seconda quando il virus è arrivato in Europa e negli Stati Uniti: le aziende della moda hanno annullato gli ordini in corso senza pagarli e molte hanno smesso di effettuarne altri; le fabbriche di fornitori, che operano con margini ridotti a causa dei prezzi troppo bassi, sono state costrette ancora una volta a chiudere e mandare i lavoratori a casa senza paga. L’ultima ondata riguarda la diffusione del virus proprio nei Paesi produttori: alcuni di essi hanno chiuso gli impianti come misura precauzionale, ancora una volta lasciando a casa gli operai senza stipendio; altri hanno deciso di lasciarli aperti, nonostante il significativo rischio per la salute dei lavoratori nelle fabbriche affollate. Ciò accade anche nel segmento a valle della filiera, dove si addensano situazioni di rischio e vulnerabilità per quei lavoratori che nei magazzini processano gli ordini tuttora in corso per i grandi gruppi multinazionali. Come per esempio gli oltre 500 lavoratori e lavoratrici del polo logistico di Stradella, dove ancora sono smistati gli ordini H&M acquistati online, i quali hanno denunciato le gravi inadempienze in materia di sicurezza ai tempi del coronavirus.
Anton Marcus, Sottosegretario del Free Trade Zones & General Services Employees Union, ha dichiarato: “L’impatto del COVID-19 sui lavoratori dell’abbigliamento in Sri Lanka è stato immenso. I lavoratori, tornati nei loro villaggi senza avere percepito i salari di marzo, stanno attraversando un momento molto difficile non riuscendo a sostenere le loro famiglie. I datori di lavoro stanno sfruttando questa situazione per licenziare e ridurre benefici e stipendi dei dipendenti, dando la responsabilità al ritiro o alla riduzione degli ordini dei loro clienti. In questa situazione i lavoratori a contratto saranno i più colpiti”.
In alcuni casi questi effetti sono stati esacerbati dalla cattiva gestione della crisi da parte dei governi nazionali. L’India ha improvvisamente annunciato un blocco nazionale, lasciando i lavoratori migranti domestici senza mezzi di sussistenza o accesso ai trasporti per tornare a casa. Alcuni di essi sono stati costretti a camminare per centinaia di chilometri verso le loro città e i loro villaggi. In altri paesi, come la Cambogia e le Filippine, le misure per combattere il virus stanno limitando ulteriormente lo spazio civico, compresa la libertà dei lavoratori di organizzarsi. In Myanmar gli imprenditori hanno usato la pandemia come pretesto per reprimere il sindacato, assicurandosi che i lavoratori sindacalizzati fossero i primi ad essere licenziati dalle imprese in difficoltà finanziaria.
Due recenti report del Worker Rights Consortium, del Penn State Center for Global Workers’ Rights e della Clean Clothes Campaign “ Who will bail out the worker s that make our clothes?” and “Abandoned? The Impact of Covid-19 on Workers and Businesses at the Bottom of Global Supply Chains” mettono in luce le cause all’origine dei catastrofici effetti del Covid-19 nelle catene di fornitura. L’estrema interconnessione e l’asimmetria di potere tipica delle catene di approvvigionamento ha permesso ai marchi e ai distributori di scaricare le conseguenze del calo della domanda sui fornitori. Le imprese di abbigliamento pagano solo alla consegna – con le fabbriche che sostengono i costi generali e di manodopera – e hanno il potere di decidere di non pagare gli ordini, anche se ciò significa, di fatto, una violazionecontrattuale. Ciò significa che i proprietari delle fabbriche di tutto il mondo sono lasciati senza liquidità per pagare i salari dei lavoratori di marzo e ancora peggio sarà per i mesi a venire, quando nessun ordine probabilmente arriverà. Nella stragrande maggioranza dei paesi produttori di abbigliamento, meccanismi di protezione sociale come l’assicurazione sanitaria, l’indennità di disoccupazione o i fondi di garanzia in caso di insolvenza sono assenti o insufficienti, in parte a causa di decenni di pressione al ribasso sui prezzi pagati dalle imprese committenti. Anni di incapacità di intraprendere azioni significative sui salari hanno lasciato i lavoratori senza risparmi e senza rete.
Dalla pubblicazione di questi due documenti, un piccolo numero di marchi ha accettato di adempiere ai propri obblighi contrattuali e di pagare gli ordini che le fabbriche stavano già producendo: H&M, PVH Corp., che possiede Tommy Hilfiger e Calvin Klein, Inditex, proprietario di Zara, e Target.
Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti afferma: “E’ fondamentale che i marchi in questo momento assolvano i loro obblighi contrattuali e paghino gli ordini effettuati e in molti casi già prodotti. In questa drammatica situazione, è urgente garantire a tutti i lavoratori nelle filiere globali risorse sufficienti a soddisfare i bisogni delle loro famiglie e a sopravvivere alla crisi, a partire dalla corresponsione dei salari e dei benefit dovuti per i mesi in corso. Le imprese multinazionali hanno costruito la loro ricchezza sull’utilizzo di milioni di lavoratori sottopagati in paesi dove non sono presenti le infrastrutture di protezione sociale necessarie a tutelare i lavoratori nei momenti di crisi. Questa crisi deve produrre un cambio strutturale del modello di business, a partire dalla introduzione di meccanismi di regolazione delle filiere global e di norme vincolanti per le imprese, a tutti i livelli”
Le istituzioni finanziarie internazionali si stanno già impegnando a mobilitare miliardi di dollari per sostenere le economie dei Paesi produttori. È fondamentale che tale sforzo includa l’impegno di mettere al primo posto le esigenze dei lavoratori, unitamente a meccanismi che garantiscano che tale sostegno li raggiunga direttamente. I sindacati globali hanno formulato raccomandazioni su come queste istituzioni possano garantire una risposta urgente ed equa alla crisi. È della massima importanza che i lavoratori, nelle fabbriche di produzione, nella logistica e fino alla distribuzione, siano al centro delle soluzioni economiche per superare questa crisi e per garantire che le misure per salvaguardare la salute delle persone non acuiscano invece loro miseria e fragilità
Chi salverà i lavoratori che producono i nostri vestiti?
Un documento del Worker Rights Consortium, redatto in collaborazione con la Clean Clothes Campaign, propone un primo ragionamento sugli impatti che l’attuale pandemia da coronavirus avrà sui lavoratori del settore moda. I Paesi ricchi metteranno a disposizione misure economiche mai viste per fronteggiare la crisi, proteggere le loro imprese e i lavoratori. Ma cosa succederà agli operai del tessile-abbigliamento, addensati in Paesi a basso reddito dove le infrastrutture sociali per tutelare i lavoratori dalle crisi spesso non esistono o sono fragili?
Parliamo di 150 milioni di persone che producono beni per l’America del Nord, l’Europa e il Giappone e altre decine di milioni impiegati nei servizi. Nel solo settore tessile-abbigliamento sono almeno 50 milioni di operai, quasi tutte donne, con stipendi di povertà senza alcuna possibilità di accumulare risparmio.
Il documento prova a identificare i fattori che stanno esacerbando la crisi per quei settori, come la moda, basati su un modello produttivo insostenibile (la fast fashion) e su filiere globali che hanno deliberatamente prodotto una limitazione delle responsabilità dei marchi committenti verso i fornitori, terminali ultimi delle conseguenze della crisi. Il rischio, che in alcuni casi è già una realtà, è che i grandi player del mercato utilizzino la pandemia per giustificare pratiche commerciali piratesche (cancellazione degli ordini in corso o addirittura già in consegna, rifiuto di pagare per merce già prodotta, etc..). Le imprese fornitrici, prive della forza economica necessaria, non potranno difendersi legalmente e, operando con margini bassissimi, non avranno le riserve finanziarie, né l’accesso al credito, per resistere allo shock prodotto dal blocco globale delle vendite.
In molti Paesi produttori i governi non finanziano direttamente le misure legali di protezione sociale per chi perde il lavoro: impongono di farlo ai datori di lavoro. Il problema è, come sempre, l’applicazione di tali obblighi: le imprese, in assenza di continuità produttiva per la cessazione degli ordini per il mercato estero, potranno sottrarsi con facilità alle loro responsabilità. Milioni di lavoratori informali o precari saranno comunque esclusi dai benefit. Inoltre, per i lavoratori che saranno costretti a recarsi in fabbrica si fa scottante il tema della sicurezza: è molto improbabile che siano messe in atto misure e protezioni individuali adeguate a garantire il distanziamento sociale in strutture normalmente sovraffollate.
E’ chiaro che sarà necessario un massiccio intervento pubblico per prevenire la catastrofe economica e sociale. Ed è altrettanto chiaro che i Paesi a basso reddito, con finanze scarse e infrastrutture di protezione sociale deboli o inesistenti, non saranno in grado di fronteggiare le conseguenze strutturali della crisi a medio e lungo termine. Ma i pacchetti finanziari messi in campo dai governi a capitalismo maturo non paiono mettere in conto misure di sostegno a favore di coloro che hanno prodotto in larga parte la ricchezza delle loro multinazionali: i milioni di lavoratori del Sud e dell’Est globale sono i grandi esclusi dai salvataggi in epoca di pandemia.
Per affrontare questa drammatica crisi e dare risposte ai lavoratori più vulnerabili delle catene di fornitura globali, occorre uno sforzo congiunto che veda da una parte i grandi marchi assumere condotte responsabili nella gestione dei rapporti commerciali con i fornitori per consentire loro di onorare gli obblighi verso i dipendenti; dall’altra la necessità di una risposta collettiva da parte di tutti i governi, delle istituzioni finanziarie e degli organismi internazionali affinché sia possibile mantenere un reddito a tutti lavoratori nel mondo oggi sull’orlo del baratro. I marchi, invece di spostare tutto il peso sulla filiera, devono condividere la responsabilità e i costi finanziari della crisi, mettendo al centro delle loro priorità il rispetto degli obblighi verso i fornitori e verso tutti i lavoratori. Queste risorse non saranno comunque sufficienti: perciò è necessario che i piani di salvataggio multimilionari predisposti dalle istituzioni internazionali e dai governi ricchi guardino anche ai destini dei soggetti più vulnerabili dispersi nelle catene globali di fornitura.
Gli aiuti futuri destinati ai Paesi produttori per far fronte alla crisi Covid-19 dovranno essere condizionati da una parte all’impegno dei loro governi a creare, nel medio periodo, robusti sistemi nazionali di protezione sociale; dall’altra all’impegno delle imprese multinazionali a siglare accordi vincolanti di filiera che riflettano prezzi di acquisto sufficienti a garantire il finanziamento ordinario di tali sistemi di protezione.
L’attuale pandemia svela definitivamente l’estrema insostenibilità di un modello di business basato sullo sfruttamento endemico di milioni di lavoratori che ricevono salari di povertà, su una forte asimmetria di potere tra marchi e fornitori che permette ai primi di addossare tutte le responsabilità alle parti deboli della filiera, su una totale assenza di accountability da parte delle imprese committenti che dovrebbero invece essere obbligate per legge alla dovuta diligenza sui diritti umani per identificare, prevenire, mitigare e riparare i danni derivanti dagli impatti delle loro attività economiche sulle comunità e sui lavoratori.
Una cosa è certa. Questa crisi offre l’opportunità di ripensare il modello di produzione e consumo patologico che ha inasprito l’attuale catastrofe economica perché non si torni al passato. E’ imperativo usare questo tempo drammatico e fecondo per gettare le basi per una industria più equa, sostenibile e resiliente nei fatti, non solo nelle pagine patinate dei rapporti di sostenibilità o dei codici di condotta unilaterali che popolano i siti delle imprese.